Maionese

Giulia Ursenna Dorati, Designer, intelligenza artificiale, AI, Estate Fiorentina 2022, città metropolitana Firenze, Firenze

“Le vuoi con o senza la maionese?” era la frase che, appena mi sono affacciata al mondo fuori dal liceo, avevo più paura di dire.

Avevo diciotto anni e fresca della borsa di studio per una delle scuole che più ho amato nel mondo (e dove ora, con molto orgoglio, insegno) che oggi porta il nome di TheSign, tenevo stretto LMVDM di Gipi e confessavo a Lorenzo, un talentuosissimo ex allievo dello stesso istituto, tutte le mie paure.

Avevo paura di aver sbagliato a non aver fatto giurisprudenza, a cui ero designata per corso naturale delle cose del mondo, avevo paura di non essermi iscritta ad architettura, perché comunque aveva un suo albo e avevo paura che non sarei mai riuscita ad essere indipendente perché quello che avevo da dire non sarebbe mai stato abbastanza importante.

Seduti a questo tavolino, mentre lui parlava della bellezza dei penna-pennelli pentel, che all’epoca vendeva a peso d’oro soltanto Manzani, io ero intenta a disegnare sul mio sketchbook. Lore mi chiese cosa stessi facendo con tanto impegno, e gli risposi che era una visione della cosa che avrei detto più spesso, una volta uscita dalla scuola.

Questa vignetta raffigurava me, con i capelli raccolti con una matita, una divisa di fast-food, delle patatine in mano e un balloon contenente la profetica frase: “le vuoi con o senza la maionese?”

Lui la guardò, si mise a ridere e poi parlammo tutto il resto del tempo di quanto eravamo innamorati di Gipi.

Ma la maionese, o meglio quel preciso aspetto metaforico della maionese rimase con me per tanti anni a seguire. Quella paura di non essere abbastanza creativa, abbastanza sveglia da capire come funziona il mondo, quest’ansia di dover ricorrere a un piano B. Ecco, maionese e piano B mi hanno tenuta sveglia ben più notti di tutti i miei amori disgraziati messi insieme, tuttavia sono stati l’origine delle mie svolte più significative.

Un salto in avanti mi porta alla commissione d’ammissione per il triennio in disegno industriale dell’ISIA di Firenze, altro posto del cuore, e l’allora direttore, l’unico e inimitabile Stefano Bettega, legge le risposte al mio test di ingresso e vedendo uno spazio bianco mi chiede quali siano le mie opzioni alternative qualora non fossi entrata, o meglio quale fosse il mio piano B.

Ecco.
Prendo fiato, lo guardo dritto negl’occhi e come se fossi dovuta morire un attimo dopo gli dico “non ho un piano B, pianificarlo avrebbe sminuito il mio piano A, che è qui.”
Nero. Titoli di coda. Cinque notti in bianco a refreshare il link della graduatoria finché poi non mi ritrovai davanti al portone di via degli Alfani, quasi ogni giorno, per tre infiniti e meravigliosi anni.

Ma tornando alla maionese, chi mi conosce sa che in realtà, la adoro, da sempre.
Ho la mia classifica di maionesi preferite, ordinabili per gusto e per packaging, so farla in 3 modi e sono pochi i piatti su cui non sarei capace di metterla.
Me ne resi conto una sera, o meglio, una notte.
Avevo lavorato oltre il limite di decenza, ero uscita con le amiche per una birra che si era trasformata in un margarita, forse due, forse tre e si era fatto così tardi che spostando appena il sistema di riferimento, sarebbe stato prestissimo. Arriviamo vicino casa mia ma prima ci fermiamo a cenare-fare colazione dal solito paninaro: “quindi ok, tre acque, tre hamburger e una patatina, che la dividiamo, il ketchup no, fai maionese”
Ed è lì, in-quella non più-notte-qualunque, che ho sciolto la mia metafora spaventosa. Ho capito che in fin dei conti io la maionese la amavo, esattamente come amavo e amo il Bauhaus, la Gestalt, le 4E, le campagne adv e passare le ore a far stare bene insieme coppie di kerning e quindi, a costo di essere naif, voglio proprio dire, forte di quasi dieci anni di senno di poi, che non c’è insuccesso che non possa essere consolato dall’amore e da una vaschetta di patatine fritte.

Con la maionese.